Dobbiamo a Robert Edward Freeman la definizione di stakeholders
Se riesci a convincere tutti i tuoi stakeholder a nuotare o remare nella stessa direzione, hai un’azienda con slancio e potere reale.
Dire che i profitti sono l’unica cosa importante per un’azienda è come dire: “I globuli rossi sono la vita”.
Hai bisogno di globuli rossi per avere la vita, ma hai anche bisogno di molto di più.»
Lo studioso, noto soprattutto per la formulazione della teoria degli stakeholder (contenuta nella pubblicazione del 1984 “Strategic Management: A Stakeholder Approach”), ha teorizzato che l’attività di un’organizzazione aziendale deve garantire una prestazione minima a tutti i portatori di interesse, ‘stakeholders’ appunto, quali gli azionisti, i clienti, i dipendenti, i fornitori, la comunità entro la quale l’organizzazione interagisce i quali, in mancanza di detta prestazione minima, abbandonano l’azienda, compromettendo in vari modi lo svolgimento dell’attività.
Dire quindi che obiettivo di un progetto di riorganizzazione deve essere quello di garantire il raggiungimento di un risultato minimo per tutti gli stakeholders, sembra talmente scontato da non essere neanche necessario ricordarlo.
Nella mia esperienza, ottenere risultati per tutti gli stakeholders non interessa a nessuno.
I progetti di riorganizzazione nei quali sono stato coinvolto, da 23 anni a questa parte, principalmente sono stati rivolti realmente a non più di 2 o 3 stakeholders: i clienti, certe volte i finanziatori esterni, sempre i soci dell’azienda. I dipendenti, le istituzioni, la società civile, i fornitori e tutti coloro che hanno interesse verso il processo di creazione di valore dell’impresa, spesso vengono coinvolti per la soddisfazione degli interessi dei stakeholders considerati, nei fatti, i più importanti.
Quindi ho imparato che dietro le richieste classiche di “avere dipendenti più motivati”, “non essere chiamato ad intervenire in ogni situazione”, “ridurre gli sprechi di tempo”, “fare in modo che l’azienda vada avanti anche senza di me”, si cela quasi sempre il desiderio dei soci e degli amministratori, variamente coinvolti nella gestione, di avere qualcosa di valore per sé e per i clienti, ma raramente c’è un vero interesse per gli altri stakeholders.
Altra cosa che ho imparato: il linguaggio non aiuta.
Nel termine RI-organizzazione, si cela una particella, il “RI” che fa pensare subito ad un’attività correttiva, di RI-educazione, di RI-progettazione, rispetto a qualcosa che non funziona come dovrebbe e che non produce quei risultati minimi dei quali ci parla Freeman. Se poi questi risultati minimi vanno raggiunti solo per alcuni stakeholders e non per tutti o almeno per la maggioranza di questi, allora è probabile che, alla fine del percorso, in pochi avranno qualcosa in più, in molti qualcosa in meno ed il processo sarà stato interpretato in maniera negativa.
Quindi nella migliore delle ipotesi si lavora sull’organizzazione a vantaggio di pochi, nel peggiore dei casi anche a svantaggio di qualcuno, cogliendo in questi momenti occasioni per regolare situazioni pregresse. L’indagine che abbiamo fatto con SCR ad 80 tra manager, imprenditori ed addetti operativi, conferma in pieno questa affermazione: il livello di soddisfazione per i risultati ottenuti dai progetti di RI-organizzazione decresce con il livello gerarchico e di responsabilità.
Non so che tipo di stakeholder sei, ma se pensi che un progetto di miglioramento organizzativo (cominciamo ad usare dei termini positivi), possa produrre i risultati che ti aspetti, senza tenere conto di cosa altri stakeholders si aspettano e di quali ripercussioni ci saranno per loro, lascia perdere e continua a lavorare!
Cosa devi sapere se proprio decidi di intraprendere un percorso di miglioramento organizzativo
Quando il piatto da preparare è l’organizzazione, gli elementi di base della ricetta appartengono a due ambiti molto precisi: strategia e organizzazione.
Se l’azienda non ha una strategia chiara e se non la condivide con le persone chiave (nota I), è molto improbabile che un progetto di miglioramento organizzativo abbia successo. Sulla strategia ne ho lette, viste e sentite davvero di ogni, ma per me si compone dei seguenti 4 elementi.
1. MERCATO – i clienti, le persone che li compongono, sono uno degli stakeholders più importanti e sono quelli che pagano per i prodotti ed i servizi offerti dall’azienda. Occorre conoscerne desideri, paure ed attività’ ed essere in grado di definirli secondo precisi criteri di segmentazione: dimensionale, merceologica, tipologica, di mercato, personale…
Per ognuno di questi gruppi di clienti e persone vanno definite attività che svolgono, vantaggi che ricercano e paure che hanno, condividendo come e perché la proposta di valore della nostra impresa possa aiurtarli. Dimentichiamoci di noi e focalizziamoci su loro, sulle opzioni strategiche che abbiamo a disposizione, tenendo conto delle altre forze competitive (nota II).
2. VISION – per quale ragione esiste l’impresa, quale bisogno assolve sul mercato di riferimento, qual è la sua ambizione nel medio-lungo termine. La vision si può descrivere e tradurre in una formulazione che indichi a tutti gli stakeholders perché l’azienda esiste e per quale ragione è utile rivolgersi ad essa.
3. OBIETTIVI – quali risultati qualitativi e quantitativi i soci ed il gruppo dirigente vogliono perseguire dal punto di vista personale e professionale, per sé e per gli altri stakeholders, e quali di questi diventeranno quelli comuni e condivisi.
4. VALORI – quali sono gli ideali che guidano le azioni ed i comportamenti? Non potendo definire tutto quello che è “giusto o sbagliato”, esistono delle chiavi di interpretazione più alte? Facciamo un esempio: i valori di B&P sono squadra, competenza, crescita, fiducia e divertimento.Li abbiamo creati nel 2007 e sono ancora validi. Tu conosci i valori dell’organizzazione nella quale lavori?
Le persone giuste
E finalmente giungiamo a dare consistenza anche al secondo elemento della ricetta, cioè l’ organizzazione stessa, che io ho imparato a definire così:
1. PERSONE – chi sono le persone con le quali il progetto di miglioramento sarà condotto, quali sono le loro competenze, cosa fanno oggi in azienda, che cosa sanno dell’azienda e del mercato per i quali lavorano?
2. RUOLI E RESPONSABILITA’ – di cosa sono e si sentono RESPONSABILI le persone in azienda, hanno un ruolo definito, quali sono le attività caratteristiche e gli obiettivi della famiglia professionale alla quale appartengono?
3. PROCESSI E STRUMENTI – le attività svolte in azienda seguono dei percorsi condivisi ed utilizzano una serie di strumenti in grado di ridurre gli SPRECHI (nota III) ed aumentare il valore per il cliente? Quanto è lasciato alla libera interpretazione delle persone, quanto risponde alla domanda “si è sempre fatto così?” e quanto ciascuno è consapevole di essere a sua volta cliente e fornitore e di qualcun altro, dentro e fuori dall’azienda?
4. STILE DI GESTIONE – qual è il rapporto tra le persone ed i capi, esistono dei percorsi condivisi di crescita, cosa definisce la meritocrazia, come vengono celebrati i successi, come sono gestiti gli insuccessi?
Se tutto questo ti è sembrato molto articolato è complesso, ti sbagli, lo è molto di più di così.
Un esempio della piramide di Hertzberg (nota IV) applicata alla domanda “perché le persone restano in un’azienda e non cambiano lavoro” è rivelatoria in questo senso.
In definitiva, devi avere davvero delle buone ragioni per intraprendere un percorso di miglioramento e cambiamento organizzativo e sapere fin da subito che, in un processo di questo genere “Siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere” (nota V).
Il tema di ri-organizzazione aziendale lo abbiamo affrontato durante la puntata di Una bella impresa, lo scorso 11 Giugno con l’azienda leader nel pronto moda Susy Mix srl.
(nota I) Una persona può essere chiave per uno o più seguenti motivi: perché ricopre un ruolo di responsabilità formalmente riconosciuto, perché coordina un gruppo di persone numeroso in rapporto all’azienda, perché governa un processo importante per la creazione del valore, perché è una persona con potere reale all’interno dell’organizzazione, perché detiene competenze di carattere distintivo ed unico, perché è responsabile di un budget di spesa importante.
(nota II) Le 5 forze competitive del Porter: concorrenti, fornitori, clienti, potenziali entranti, prodotti sostitutivi.
(nota III) I 7 sprechi da individuare e ridurre sono: attese, rilavorazioni, movimenti inutili di persone, scorte, attività superflue, produzioni in eccesso o in anticipo, trasporti.
(nota IV) Herzberg è stato un psicologo statunitense che, nella metà del secolo scorso, condusse una ricerca su un campione di 200 persone selezionate per capire quali eventi li avevano fatti sentire soddisfatti o insoddisfatti nell’ambito professionale. Herzberg giunge a concludere che gli elementi che generano insoddisfazione sono connessi ad esempio alle relazioni orizzontali e verticali nell’azienda, alla retribuzione, alla sicurezza personale data dalle regole interne. Herzberg denomina questi come fattori igienici, ossia elementi che, se presenti, eliminano l’insoddisfazione ma non creano soddisfazione. Gli elementi invece che generano soddisfazione riguardano i risultati intrinsechi del lavoro: il raggiungimento di un obiettivo difficile, il riconoscimento, la promozione, la responsabilità, una qualifica ottenuta, la professionalità e la crescita di carriera. Herzberg denomina quest’altri come Fattori Motivanti, i quali sono fonti di soddisfazione ma l’assenza di essi non causa l’insoddisfazione. La presenza di questi fattori quindi genera un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro, portando ad una maggiore motivazione e produttività sul lavoro.
(nota V) La storia – F. de Gregori, F. Mannoia.
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